Emersione di rapporti di lavoro: legittima anche per datori di lavoro stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

Il TAR Liguria, dubita, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, nella parte in cui prevede che la domanda per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o stranieri possa essere presentata solo da datori di lavoro stranieri in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, invece che da datori di lavoro stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

Il giudice a quo espone di essere investito del ricorso per l’annullamento del provvedimento con cui la Prefettura di Genova – Sportello unico per l’immigrazione ha rigettato la domanda di emersione, presentata ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, perché il richiedente non era titolare di permesso di soggiorno di lungo periodo.

La norma censurata, nel limitare la possibilità di attivare la procedura di regolarizzazione da essa prevista ai datori di lavoro stranieri in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, invece di consentirla a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, contrasterebbe con l’art. 3, primo comma, Cost. Questa limitazione, infatti, determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori che, «a parità di requisiti “sostanziali”», verrebbero ammessi o meno alla procedura di emersione, a seconda del titolo di soggiorno del loro datore di lavoro.

Sentenza della Corte

La Corte Costituzionale nella sentenza n. 149 del 18 luglio 2023 la norma censurata risulta manifestamente irragionevole, in quanto stabilisce un requisito di accesso alla procedura di emersione degli stranieri dal lavoro irregolare eccessivamente restrittivo.

L’emersione del lavoro svolto “in nero”, che nel caso di cittadini stranieri si intreccia alla regolarizzazione della loro presenza in Italia, persegue uno scopo socialmente apprezzabile, a tutela, oltre che delle parti del singolo rapporto di lavoro, dell’interesse pubblico generale, in particolare della regolarità e trasparenza del mercato del lavoro.

La norma censurata, al contrario, richiedendo al datore di lavoro che non sia cittadino italiano o di uno Stato dell’Unione europea il permesso di soggiorno di lungo periodo, restringe eccessivamente, in modo non ragionevole, l’ambito dei soggetti che possono presentare istanza per «dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare» con cittadini italiani o stranieri, ostacolando così la realizzazione degli obiettivi perseguiti dallo stesso legislatore, ossia la più ampia emersione del lavoro “nero”. Peraltro, la condizione dell’essere «regolarmente soggiornante in Italia» si cumula con altri requisiti, oggettivi e soggettivi, richiesti nella stessa legge per accedere alla procedura di regolarizzazione, al fine di prevenire eventuali elusioni del sistema di emersione del lavoro irregolare.

Tenuto conto di quanto rilevato, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata, in quanto riducendo eccessivamente la “platea” dei datori di lavori abilitati ad attivare la procedura di emersione prevista dal censurato art. 103, comma 1, compromette la realizzazione degli obiettivi dalla stessa perseguiti, attinenti tanto alla tutela del singolo lavoratore quanto alla funzionalità del mercato del lavoro in un contesto d’inedita difficoltà. Questa contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la norma censurata lede, dunque, il principio di ragionevolezza.

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