Psicologi militari: illegittima l’incompatibilità all’esercizio delle attività libero professionali.

La Corte Costituzionale è stata richiamata nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 210, comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), promosso dal Consiglio di Stato, sezione seconda, nel procedimento vertente tra il Consiglio dell’Ordine degli psicologi del Lazio e altri e il Ministero della difesa e altri.

Il caso

Il Consiglio di Stato dubita, in riferimento agli artt. 3, 4, 32, 35, 97 e 98 Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 210 richiamato, nella parte in cui non contempla, accanto ai medici militari, anche gli psicologi militari tra i soggetti a cui, in deroga all’art. 894 del codice medesimo, non sono applicabili le norme relative alle incompatibilità inerenti l’esercizio delle attività libero professionali, nonché le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il servizio sanitario nazionale.

Ad avviso del rimettente, la norma censurata violerebbe:

– l’art. 3 Cost., determinando un’irragionevole disparità di trattamento tra il medico e lo psicologo militari, nonostante anche quest’ultimo eserciti una professione sanitaria volta alla cura della salute delle persone e, nel Servizio sanitario nazionale (SSN), sia inquadrato, insieme ai medici, nel ruolo unico della dirigenza sanitaria e possa esercitare «attività libero professionale individuale, al di fuori dell’impegno di servizio»;

– gli artt. 4 e 35 Cost., in quanto la norma censurata comporterebbe una violazione «del diritto al lavoro e all’elevazione e alla formazione professionale», privando gli psicologi militari sia di occasioni lavorative, sia di un importante strumento di aggiornamento professionale.

La mancata estensione della deroga al principio di esclusività della professione militare agli psicologi non sarebbe giustificata, anche perché gli interessi che l’esercizio dell’attività libero professionale è destinata a soddisfare sarebbero gli stessi (il reciproco vantaggio dell’amministrazione di appartenenza e della comunità civile).

Sentenza della Corte

La Corte Costituzionale nella sentenza n. 98 del 18 maggio 2023 ricorda innanzi tutto che, nell’ambito del pubblico impiego, vige un generale principio di esclusività della prestazione di lavoro in favore delle amministrazioni, con divieto di assumere altri impieghi e di svolgere altre professioni. La disciplina dettata in tema di incompatibilità si applica a tutto il pubblico impiego, con esclusione:

– dei dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale (con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno),

– dei docenti universitari a tempo definito,

– delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito, da disposizioni speciali, lo svolgimento di attività libero professionali, tra cui figurano, appunto, i medici dipendenti del SSN.

I dirigenti sanitari che optano per un rapporto di lavoro non esclusivo possono esercitare la libera professione (in tal caso definita “extramuraria”), ma devono, comunque, garantire la «totale disponibilità nell’ambito dell’impegno di servizio». Sono, poi, le aziende a stabilire «i volumi e le tipologie delle attività e delle prestazioni che i singoli dirigenti sono tenuti ad assicurare, nonché le sedi operative in cui le stesse devono essere effettuate».

Tali disposizioni si applicano a tutti i dirigenti sanitari, tra cui gli psicologi, e non solamente a quelli medici.

Anche l’art. 894, comma 1, del cod. ordinamento militare fa salvi, rispetto al generale principio di incompatibilità della professione militare con l’esercizio di ogni altra professione, «i casi previsti da disposizioni speciali». Tra queste si colloca, appunto, l’art. 210, comma 1, del codice medesimo, il quale stabilisce – analogamente a quanto previsto per il rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari del SSN – che, «in deroga all’articolo 894, comma 1», ai medici militari non si applicano «le norme relative alle incompatibilità inerenti l’esercizio delle attività libero professionali, nonché le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il servizio sanitario nazionale, fermo restando il divieto di visitare privatamente gli iscritti di leva e di rilasciare loro certificati di infermità e di imperfezioni fisiche che possano dar luogo alla riforma». Il comma 1.1. del citato art. 210 chiarisce che, comunque, «nell’esercizio delle attività libero professionali di cui al comma 1, i medici militari non possono svolgere attività peritali di parte in giudizi civili, penali o amministrativi in cui è coinvolta l’Amministrazione della difesa ovvero, per i medici militari del Corpo della Guardia di finanza, l’Amministrazione di appartenenza».

La dizione letterale dell’art. 210 cod. ordinamento militare, che fa riferimento ai soli «medici militari», e la sua collocazione sistematica, subito dopo la definizione, nell’ambito del personale addetto alla sanità militare, della specifica categoria costituita dagli ufficiali medici (art. 209), confermano che la deroga al principio di esclusività dell’impiego militare non opera per tutto il personale del Servizio sanitario militare, ossia per tutti gli ufficiali e sottufficiali abilitati all’esercizio delle professioni sanitarie (art. 208, comma 1, lettera a), ma solamente per il personale medico.

In forza di questo dato letterale, peraltro, il giudice rimettente esclude la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata. L’art. 208, infatti, nel definire il personale della sanità militare, si riferisce a tutti gli esercenti la professione sanitaria, tra cui rientrano anche gli psicologi; mentre l’art. 210, nel derogare al regime di esclusività della professione militare, si rivolge ai soli medici.

La Corte evidenzia che la limitazione soggettiva della facoltà di esercitare la libera professione determina un’irragionevole disparità di trattamento tra le due situazioni poste a confronto, quella dei medici e quella degli psicologi militari, che, sotto il profilo in esame, sono tra loro omogenee e, in quanto tali, suscettibili di valutazione comparativa.

Poiché entrambi i professionisti, medici e psicologi militari, erogano prestazioni volte anche alla tutela dell’integrità psichica e, oggi, rientrano nell’unitaria categoria del personale militare abilitato all’esercizio della professione sanitaria, essi vanno equiparati sotto il profilo che qui viene in rilievo, quello della facoltà di svolgere la libera professione. Ciò a prescindere dall’eventuale diversità di ruoli e di progressione di carriera, che può riscontrarsi nell’ambito dei rispettivi corpi sanitari di appartenenza. Non emergono ragioni che giustificano il riconoscimento della predetta facoltà esclusivamente ai medici militari.

La mancata estensione agli psicologi militari della disciplina derogatoria invocata dal rimettente, quindi, non risulta sorretta da alcun motivo giustificativo, proprio in considerazione della rilevata identità sia della categoria professionale cui appartengono gli uni e gli altri, quella dei sanitari militari addetti al SSM, sia dell’attività da essi svolta, diretta pur sempre alla cura della salute del paziente.

Alla luce di quanto evidenziato la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 210, comma 1, cod. ordinamento militare, nella parte in cui «non contempla, accanto ai medici militari, anche gli psicologi militari tra i soggetti a cui, in deroga all’art. 894 del codice medesimo, non sono applicabili le norme relative alle incompatibilità inerenti l’esercizio delle attività libero professionali, nonché le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il servizio sanitario nazionale».

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