L’affitto con cedolare secca fa reddito ai fini dell’assegno sociale.

Con le sentenze 5470 e 5471 del 22 febbraio, la Cassazione riporta due indicazioni da segnalare all’interno delle questioni relative al calcolo dei redditi nell’assegno sociale.

Nella sentenza 5470/2023, la Corte precisa che, tra i redditi da considerare ai fini dell’accesso alla prestazione dell’assegno sociale ossia i redditi imponibili ai fini Irpef (secondo quanto disposto dal Dl 663/1979) deve ricomprendersi il reddito da locazione. Le perplessità erano derivanti dal fatto che per questo tipo di reddito è previsto un regime fiscale peculiare, la cedolare secca, ossia quel meccanismo che si sostanzia nel pagamento di un’imposta sostitutiva dell’Irpef e delle addizionali (per la parte derivante dal reddito dell’immobile), con esenzione dell’imposta di registro e dell’imposta di bollo, ordinariamente dovute per registrazioni, risoluzioni e proroghe dei contratti di locazione.

Secondo la Cassazione, l’apposizione della cedolare secca costituisce solo una modalità di calcolo agevolata per l’adempimento dell’obbligo tributario, ossia un meccanismo alternativo rispetto all’imposta ordinaria. Dunque, l’articolo 26 della legge 153/1969 nel voler escludere dal conteggio del reddito rilevante ai fini dell’accesso alla prestazione dell’assegno sociale alcune particolari categorie di redditi, deve comunque essere interpretato nel senso di valutare come rilevante ogni reddito del quale l’assistito abbia effettiva disponibilità, perché solo in questo modo è possibile verificare l’effettivo stato di bisogno.

Del resto, lo stesso articolo 3, comma 6, della legge 335/1995 per i redditi rilevanti per l’assegno sociale, precisa che alla formazione del reddito concorrono i redditi di qualsiasi natura al netto dell’imposizione fiscale e contributiva, ivi compresi quelli esenti da imposte o soggetti alla ritenuta alla fonte o ad imposta sostitutiva. In ordine alla cedolare secca vi è poi un’espressa indicazione normativa (articolo 3 del Dlgs 143/2011) che impone di tener conto dei redditi sottoposti a questa tassazione per il riconoscimento o la spettanza di determinate prestazioni o benefici di qualsiasi titolo, essendo anche redditi rilevanti ai fini Isee.

La pronuncia 5471/2023 tratta invece del tema della prova del requisito reddituale per l’accesso alla prestazione assegno sociale. Nel caso specifico, l’assistito aveva semplicemente allegato, nel giudizio di primo grado, di essere in possesso del requisito reddituale, mediante autocertificazione (dichiarazione sostitutiva) salvo poi in appello integrare la documentazione mediante certificato dell’agenzia delle Entrate. La questione ruota attorno alla possibilità di questa integrazione in appello, in un rito, come quello del lavoro in cui opera un rigido sistema di preclusioni.

Ebbene, secondo la Corte, seppure è vero che la dichiarazione sostitutiva non dà la prova della verità del contenuto, ciò non di meno può essere del tutto trascurata, potendo essere utilizzata dal Giudice quale documento idoneo a stimolare i poteri d’ufficio. Il giudice può infatti, nella sua discrezionalità, considerare tale atto come un principio di prova, suscettibile di essere integrato attraverso l’acquisizione di altri documenti ed elementi di prova, per effetto dell’esercizio del potere del giudice. Allo stesso modo, il fatto che la prova si completi in appello non costituisce evenienza anomala, in quanto anche sotto questo profilo il rigoroso sistema delle preclusioni trova un efficace contemperamento nei poteri del giudice, che anche in via officiosa può ammettere nuovi mezzi di prova, purché siano soddisfatte due condizioni generali: da una parte occorre che tali documenti/elementi siano ritenuti indispensabili ai fini della decisione e poi deve comunque trattarsi di fatti e circostanze già allegati regolarmente nel processo e che già vi hanno fatto ingresso, sia pure come mera allegazione.

Tanto è vero che spesso le questioni di questo tipo si verificano proprio in relazione a integrazioni documentali di fatti già presenti. Si mostra insomma, ancora una volta, la particolarità dei diritti in gioco all’interno del processo previdenziale, particolarità che legittima un’azione più incisiva da parte del giudice nella ricostruzione del fatto storico e nella decisione secondo principi legati al bisogno e alla equità sostanziale, sia pure all’interno dei limiti ora descritti.

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